7. La domanda è se rispondo alla realtà - Claudia Marabini




Claudia Marabini

Scrivere è tenere una posizione riflessiva. 
Tenere una posizione vigile sul proprio lavoro. 

Metodo: rappresentare la strada. 
Come si fanno le cose.
Come si va oltre a ciò che c’è già. 
Il metodo è una possibilità di costruire opportunità di andare oltre la situazione esistente. 
Il metodo non è un modello da applicare.
Il metodo non è standardizzazione.
Il metodo è contestualizzazione degli orientamenti. 

Anche Antonio Machado diceva che la strada si fa camminando.
Il cammino è fatto dal camminare e dall’entrare in relazione.
Il contatto con la realtà è storia, cultura, soggettività, relazioni.
Il metodo apre immediatamente la questione del: cosa possiamo fare assieme? 

Orientamenti: come gli orientamenti guidano rispetto al contesto e ai problemi da trattare.
Collocarsi rispetto al contesto: dove mi metto, rispetto a ciò che c’è già.
Mappe delle situazioni: Riconoscerle, integrarle e decostruirle.
Questo è il processo di costruzione di nuove conoscenze. 

Disporre di orientamenti ti aiuta ad entrare in relazione.
Se esplicitati, confrontati, condivisi e assunti gli orientamenti ci danno forza.
Danno il potere. Il potere di disporre di strumenti che ci aiutano a districarsi.
Aiutano a costruire, anche con il diverso, anche con il committente, la possibilità di disporre di un riferimento terzo, luogo su cui avviare un possibile confronto. 

I servizi e le organizzazioni oggi sono di fronte ad una questione nodale: ciò che fanno è congruente rispetto alla realtà?

In questo quadro, la questione della collaborazione prende un’altra forma. 
I servizi hanno investito molto in ripartizioni, ambiti, specializzazioni.
Questo ha prodotto elevati livelli di frammentazione nello sguardo dei problemi.
La domanda che ci si pone è sempre: mi compete o non mi compete? 
L’approccio con la realtà parte dalla definizione dei confini. Faccio ciò che è dentro i miei confini e non faccio ciò che sta fuori. Tutto in base ad un orientamento di fondo che è una dinamica illusoria:   il poter definire le persone in base al problema che portano. Il poter risolvere le situazioni a partire dall’aver confinato le persone nei loro problemi. Il poter pensare ai problemi come a sacchetti di biglie. In cui è possibile prenderli uno ad uno. Assegnare il problema 1 a tizio e il problema 2 a caio. Mentre la realtà è intreccio di problemi (ed opportunità). 

Riprendiamo la domanda di cui sopra: se ciò che facciamo è congruente alla realtà.
Vediamo che la maggior parte delle cose è fuori dai confini di tutti. 
I problemi sono da ri-conoscere. Da ri-nominare. 
Quindi non è la scomposizione in parti assegnate a ciascuno ciò che ci aiuta. 
Quindi l’alleanza, il momento in cui mi serve l’altro, è sul riconoscimento conoscitivo. 
C’è bisogno di allearsi per costruire conoscenza insieme. 
Riaprire, assieme, le conoscenze e le ipotesi da cui si interviene. 

Quando ci si avvicina alle situazioni, se dispongo di un orientamento forte, questo mi aiuta a costruire una possibilità di dialogo. 
Se c’è un livello di condivisione sufficiente sulle conoscenze, questo determina la possibilità di aprire un percorso. 

Collocarsi rispetto a quello che c’è già.
Stiamo parlando di situazioni drammatiche. Di adulti in condizione di vulnerabilità. Di persone che hanno relazioni instabili, spesso disturbi mentali, spesso comportamenti disturbanti, spesso piccoli reati. C’è una ampiezza di situazioni in campo. Ci sono problematiche ampie…

Gli operatori, coloro che provano ad intervenire, sono sottoposti al giudizio della collettività. 
La questione della collaborazione è molto caricata dalle aspettative del contesto: il contesto preme per risolvere questioni spesso non risolvibili. 

I servizi sociali hanno il timore ad avvicinarsi ed esprimono attese di supporto da parte di specialistici. I servizi psichiatrici tendono a espellere situazioni che vivono come improprie, non proprie. Appoggiati al DSMV misurano tutto a partire da quello. “Si, hanno un po’ di problemi psicopatologici ma… non sono abbastanza tossici, non sono abbastanza psichiatrici… non ci stanno in nessuna categoria”. 

Si può continuare a mettere i confini. A rimpallarsi la responsabilità dell’azione e la colpa del fallimento. 

Oppure dal punto di vista del ri-conoscere si può riconoscere la non congruità di ciò che si sta mettendo in campo. Riconoscendo che c’è una realtà nuova. E che serve mettere in campo qualcosa di nuovo. 

Dal punto di vista del collocarsi è un iniziare a dirsi che le problematiche di confine esistono e iniziano ad essere nominate. 

Dal punto di vista del gruppo, quando si parte c’è un nucleo iniziale. 
Tra chi parte in questa impresa ci sono alcuni molto identificati con questa impresa. 
C’è qualcuno molto preoccupato dei nuovi compiti (carico di lavoro…).
C’è qualcuno molto preoccupato della pluri-appartenenza.

(narrazione di un caso…) 
C’è un Direttore dipartimento molto apri pista, uno psichiatra ingaggiato, appassionato. 
Anche con la preoccupazione di ridurre i conflitti a livello istituzionale. 
Ci sono gli assistenti sociali che non vedevano l’ora di non essere più rimbalzati dall’ospedale. 
Ci sono gli amministratori e i responsabili di uffici di piano.
Tutti molto preoccupati di arrivare a risolvere il chi fa cosa. 

Per chi entra è importante collocarsi. Capire dove entra. 
Gli attori raccontano i problemi in modo diverso. Va riconosciuto. 
 Il processo non parte dal professionista, dal promotore, dal consulente. 
Ma prende avvio da una storia e da questa ne è influenzato. 
Riconoscere la storia. 
Avviare una ricognizione di contesto in cui riuscire a rendere visibile almeno alcune risorse. 
Chi ha voglia? Quali sono gli slarghi? Quali i pertugi?

Le possibilità di costruire evoluzioni dei contesti sono molto legati a quanto teniamo in dialogo le diverse questioni:
  • istituzionali
  • organizzative
  • soggettive.

Nella costituzione di questo gruppo sono stati 3 i criteri di composizione: 
  • interesse a starci
  • risorse elaborative delle persone
  • disponibilità ad interrogare le proprie mappe.

C’è necessità di darsi il tempo del riconoscimento delle rispettive mappe rispetto alle situazioni.
L’ansia è il chi fa cosa. L’urgenza è sempre presente. 
La drammaticità del problema accentua l’urgenza. 

La risposta è resistere a quell’ansia.
Focalizzarsi sul mettere a fuoco delle ipotesi sulle problematiche. 
Come leggiamo la realtà? 

Abbiamo usato una traccia di analisi delle situazioni che andava a sondare (per riconoscere le mappe, per capire cosa le persone vedevano) come venivano lette le storie. 

Anna ha 58 anni, lavora come magazziniere, ha due figli etc etc etc

Cosa vediamo? cosa è evidenziato, cosa è lasciato in ombra.
I dati ci dicono il retino che gli operatori hanno. 
Che elaborazione fanno? Come connettono quei dati? Che supposizioni fanno?
Che collaborazioni ci sono? 

Per fare ricerca su due elementi si lavora su:
  • come si conosce.
  • come si costruisce conoscenza. 
Questo è un decentramento potente rispetto al chi fa cosa.

La posizione di riflessività di cui si parlava era un ingaggio del gruppo.
Il ruolo del consulente era dare consistenza alla riflessività. Legittimare la resistenza all’ansia. 
se hai scritto questo, significa che…”. 

Le mappe principali che emergono sono: 
  • molto accento sul singolo  
  • molto accento sull’elemento critico scatenante  
  • molto accento sul rapporto della persona con il servizio 
  • molto accento sulle mancanze e sulle criticità
  • non si vedevano rapporti con il contesto
  • non si vede la storia
  • non si vedono le potenzialità. 
Sembra che la persona sia descritta dal suo rapporto con il servizio. 
Da quanto aderisce e quanto no a ciò che il servizio pensa che lei debba essere.

La prima cosa che si vede è: insufficienza di conoscenza.
Queste narrazioni non ci fanno vedere le persone. 
Non ci aiutano a capire che problemi hanno. 
Non ci aiutano a capire da dove vengono e dove vorrebbero andare. 
Non ci aiutano a capire come muoversi. 
Non si vede chi è la persona, cosa desidera, cosa interessa, cosa gli piace. 
Non vediamo agganci. 

Mappe: non è che una mappa è giusta o sbagliata in assoluta.
La mappa è un punto di vista sulla realtà.
Il problema delle mappe è quando sono inconsapevoli. Sono agite ed implicite.
Rischiamo di considerarle buone in sé. 
Il problema non è se sono buone o cattive.
Il problema è: rispetto a questo problema, in questo contesto, ci servono o no?
Le mappe rischiano di essere molto interiorizzate.
Sono le lenti con cui guardiamo. 
Le mappe ci orientano.
Sono indispensabili: non possiamo chiederci tutti i giorni che strada fare per andare al lavoro.
Abbiamo bisogno di dare qualcosa per scontato.  
Ma se le mappe sono troppo implicite, se sono binari troppo stretti, ci vincolano e ci impediscono di vedere la realtà. 

Ognuno di noi ha delle idee comode entro cui accomodarsi.
Sono idee rassicuranti. Ci aiutano a posizionarci velocemente. A trovare il nostro posto. 
E’ come se si strutturassero routine che strutturano anche il nostro pensiero.

Siamo riusciti a parlare della persona, solo dicendoci che non siamo più del Sert e del CSM e trovandoci in un posto diverso”. “come persona capirei che… ma nel ruolo che ho non posso non intervenire in questo modo…”. 
Sono cose che capitano realmente agli operatori. O dobbiamo pensare che gli operatori sono storditi e scissi, oppure dobbiamo dedurre che c’è una potenza molto forte delle identità nelle organizzazioni e nei ruoli che agisce sulle persone e sulla loro capacità di comprendere.  

Come gestire le mappe:

  1. Lavorare sul setting. 
Setting che aiutano a guardare. 
Setting di ricerca. “Siamo qui per capire insieme”.
Setting in cui è molto abbassato il livello di giudizio.

2. Ospitare i significati degli altri.
Farsene qualcosa anche delle ragioni degli altri. 
Non espellerle.  

3. congruenza.
Verificare la congruenza delle mappe con la raeltà. 
In questa situazione, mi serve? 

4. negoziare 
Non c’è un risultato ottimale dato in partenza.
L’esito è il frutto della negoziazione. 

5. fiducia
La fiducia non è un prerequisito. La fiducia è un esito.
Nella prima fase di lavoro l’obiettivo è la costruzione di un setting di fiducia.
Non solo tra committente e consulente. Non solo tra consulente e singoli partecipanti.
Anche tra partecipanti. 

6. stare molto vicini ai problemi delle persone.
Non si può andare troppo lontani dalle persone.
Più ci si allontana, più ci si perde. 

7. Le persone si smarriscono.
Riconoscere che cambiare i modelli, collaborare, far nascere il nuovo, vuol dire chiedere alle persone di perdere il loro equilibrio. Di fare spostamenti. Questo va a toccare identità professionali. Che a volte costituiscono identità personali. Sono movimenti delicati. Dobbiamo riconoscerlo. 
Non conosiderare illegittimi i movimenti di arroccamento difensivo. Ma lavorare su come disinnescarli. 

8. Restituire potere
“Io considero non professionale interpretare” come se i fatti in sé possano avere una evidenza.
Il cul de sacc della collaborazione è spesso che noi non ci legittimiamo di avere un sapere e una conoscenza che può entrare in relazione con il sapere dell’altro. Se io sto solo sul “chi fa cosa” questo non lo tratto mai. Attribuiamo all’altro la competenza di lettura. Ci chiudiamo in un ruolo esecutivo. Ci proteggiamo in un approccio classificatorio. Ci assolviamo dal fallimento attribuendoci solo spazi esecutivi. Invece ogni ruolo ha un sapere. E ogni ruolo ha un potere. Riconoscerlo permette di costruire un ambito di confronto e di collaborazione. Non riconoscerlo permette di sfuggire e boicottare. 

9. Più fuori che dentro
Gli adulti in condizione di fragilità sono persone che sono più fuori che dentro i servizi.
I servizi, in realtà, non li acchiappano. Sono difficili da agganciare. Anche quando vengono a chiedere in modo molto pressante, vengono e poi vanno. Anche quando sono costretti dentro, sono dentro solo fisicamente. 
Se sono più fuori che dentro, è sul fuori che dobbiamo agire, non solo sul dentro. 

10. scrivere
Scrivere è faticosissimo. Non c’è mai tempo. Si fa moltissima fatica.
Ma scrivere aiuta ad avere comprensioni. Aiuta a vedere via via cosa si produce. E aiuta via via a sostenere un processo di identificazione in ciò che si costruisce. 
Nei gruppi scrivere aiuta ad allentar le appartenenze rigide ai propri confini e alle proprie organizzazioni. A fare in modo che lo spazio di conoscenza diventi uno spazio di terzietà. 

11. Esistono altre dimensioni oltre quelle razionali
La dimensione affettiva interessa, attrae, intriga.
Se in un contesto cogli elementi interessanti anche per te stesso apri maggiori possibilità.
Lavorare sulla connessione tra il percorso dell’organizzazione e il percorso personale apre spazi. 

Non esiste “il metodo” per l’agire sociale. Esistono i processi. 
Obiettivo di questa summer school è attraversare i processi e vedere gli snodi.

Il primo snodo è la domanda di congruità.  
Aprire dialogo per interrogarsi su se ciò che facciamo ha una qualche utilità sociale. 
La domanda non è se rispondo alla regola.
La domanda è se rispondo alla realtà. 


Il processo è continuo. Un continuo dialogo. una continua rifocalizzazione. Come il lancio del piattello. Dove tu per colpire devi rimettere a fuoco la tua visione su un oggetto che è in movimento. La rifocalizzazione è un processo che interroga te stesso in relazione ad oggetti dinamici.  

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