11. Non succede niente di eclatante - Barbara Di Tommaso

Come Ennio ho emozione di essere qui sul dato autobiografico della conoscenza di don Aldo Ellena. Sono stata allieva del corso di animatore sociale. Mi piace esser qui sul motore di quella frase. Quando ho iniziato a lavorare come educatrice dopo molti anni nella scuola avevo la sensazione di bruciarmi in poco tempo. Mi sembrava di essere il criceto nella ruota. Gira gira, si stanca, ma è sempre lì. Mi sono detta: a scuola non ci posso stare. Fuori dalla scuola succedono cose interessanti ma come facciamo a renderle interessanti a chi non le vive direttamente? Mi sono cercata un contesto in cui la formazione sia parte integrate dell’esperienza. Questo mi ha consentito di accedere a quella dimensione che non sapevo essere l’apprendimento dall’esperienza. Ho imparato a chiamare così ciò che mi mancava.
Mi affascina la centratura sul metodo, sul “come”. Nel contempo mi sintonizzo con l’ambivalenza che suscita il metodo. Sospetto sempre che il “come” sia al servizio di non meglio precisati “cosa” e “perchè”. E su questo “perchè" ci sono rimozioni. Agiamo come se il “come” fosse neutro. Come se i metodi non rispondessero a diverse visioni del mondo. Se il metodo lascia troppo nell’implicito le dimensioni del “perchè” si finisce per mettere in secondo piano la finalità. 

Cit. Lo stato sociale. Amore, lavoro e altri miti da sfatare. Mito da sfatare. Mito del cambiamento. E’ un mito fondativo, un po’ violento, si lavora perchè le persone cambino qualcosa di sè, del loro rapporto con la realtà, mantenendo una visione di noi ortopedico/correttiva. Le persone devono cambiare. i nostri sforzi vanno in quella direzione: far cambiare i comportamenti, far cambiare le teste delle persone. Detto che a volte il cambio di comportamento può essere necessario, è un atteggiamento presuntuoso, che chiama in causa dimensioni contenitive e repressive. Ti ho tolto il bambino. Ti ho arrestato. Così cambi. Cambiare perchè ti è prescritto dalla circostanze, non è nemmeno detto che funzioni. Ma, in ogni caso, non esplora il cosa se ne fanno le persone di questa esperienza. Le persone a volte si passivizzano (e a volte non guasta, con comportamenti devianti). Le persone a volte apprendono come aggirare le nostre regole. Ma noi non sappiamo cosa se ne fanno le persone di quella esperienza. Il lavoro educativo può essere inteso non come allestire occasioni di apprendimento dell’esperienza, affinché i destinatari possano apprendere in modo più libero e responsabile rispetto alla vita e rispetto al contesto in cui sono inseriti. 

Il metodo deve legittimare la presa di parola. In questo c’è una visione della società non neutrale. Le persone sono viste non come variabili dipendenti. E dove è diritto di ciascuno prendere parola sulla propria vita. Nel dibattito sociale si parla di empowerment. Non si parla in termini progettuali di apprendimento. Della possibilità di scoprire altri aspetti della vita, per indossare altri occhiali, per arricchire i propri repertori di azione e quindi aprire la possibilità di scegliere tra più strade. Io leggo tantissimi PEI. La parola apprendimento è relegata all’ambito scolastico. 

Siamo ancora molto dentro la linearità bisogno/risposta, domanda/risposta. Questa linea fa fuori l’apprendimento. Ci sono repertori standard per far corrispondere il bisogno alla risposta3 possibile. Ci sono schematismi a volte anche poco efficaci e a volte anche discutibili. Se siamo dentro questo binomio non c’è l’apprendimento. Si tratta di far collimare. Si tratta di azzeccare la risposta. Se non funziona, si considera di aver sbagliato. Si ha paura di sbagliare. Di apparire incompetenti. Tutto questo favorisce una visione in cui il metodo ci dice cosa fare. 

Aver moltiplicato le cose successe non è detto che sia esperienza e non è detto che produca apprendimento. Conosco molte persone che viaggiano per il mondo e sono sempre gli stessi. Raccontano dei fatti. Tendiamo a ripeterci come esseri umani. Convinti che sia anche naturali. Come se non comprendessimo i condizionamenti delle culture e dei contesti. Vale per i nostri utenti e vale anche per noi. Apprendere è costoso. Sono chiamato, se mi tengo aperto e sono un po’ accompagnato, a rimettere in discussione. C’è un dolore mentale nel ricostruire, riconoscere il proprio limite, mollare degli attaccamenti, riconoscere che non si sa o che non si era capito. Non siamo sempre disponibili a fare questa operazione. 

Mi colpisce quando nei gruppi di lavoro le persone si scatenano nelle discussioni su un caso. Tirando fuori una certezza e una chiarezza anche impressionante. Come si fa ad essere così sicuri ed assertivi? In un campo come il sociale, in cui è tutto molto sfumato. Curioso come si apra lo spazio agli ego. E chiuda all’apprendimento. Ci vuole umiltà. Non è diffusa in un’era di cv lunghi km, di lauree specialistiche e master.

Ci sono situazioni in cui non c’è un problema enorme. Non succede niente. Situazioni di lavoro domiciliare con minori, di lavoro sociale delle assistenti sociali… non abbiamo niente da raccontare. Non è successo niente di eclatante. A volte non solo c’è una questione di costruire un problema, ma c’è una questione di vedere cosa succede. Dire “non è successo niente di eclatante” ha il sottotitolo “non è successo niente”. Come si lavora su problemi che non sono visti, come i botti “suicidio, rissa”. Quelle sono le cose che ci attivano. Quelle sappiamo che dobbiamo intervenire. Ci scanniamo magari su come farlo, se sanzione o altro. Ma tutte le altre cose, che non sono eclatanti, che fine fanno? Ci interessano? 

Esperienza di un gruppo di operatori che gestisce un CAG in centro milano, stranieri e indigeni, ricchi e poveri. Impegnati da anni in accompagnamento a crescita, lavoro di rete. Molto rodato come servizio riconosciuto. C’è un gruppo 19-24 anni che si autonomina “il covo” che ha fatto tutto ciò che in un CAG si poteva fare. Fatto ping pong, attività estive, rap, serate, esterne… sono in gamba, fatto tutto, ragazzi che continuano a venire lì. Questo gruppo è descritto come un gruppo di persone che ogni tanto fanno anche volontariato con i piccoli, passano sempre e ci chiedono se possono dare una mano… dovrebbero andarsene, perchè non se ne vanno? Se proponiamo loro qualcosa, dicono che non interessa. Qualcuno lavora, qualcuno disoccupato, qualcuno studia. Se gli operatori dicono: allora proponi tu. Loro bofonchiano ma non propongono. Ma stanno lì. 2-3 volte alla settimana e si piazzano. Questo ad un certo punto viene fuori, in un contesto di supervisione, come desiderio di espulsione. 

Provare a vedere i dati di realtà. Ricostruire la storia di questo gruppo. Vedere cosa stanno vivendo, fuori dal centro, non solo dentro. 
Proviamo a guardare in filigrana cosa succede. Cominciano, un po’ guidati da domande esplorative, un po’ perchè recuperano capacità di osservazione interessanti. Vero che Martina e Cristian parlano di come è difficile trovare lavoro. Vero che parlavano del fatto che la mamma di Samantha ha portato a casa l’ennesimo fidanzato. Si riescano cose sentite, ma che non sono diventate un dato da elaborare e utilizzare. Ci si accorge che in quella situazione, in cui nulla accade, le persone intanto stanno vivendo. Forse in attesa che qualcuno veda se è possibile un processo di comprensione, un apprendimento che consenta delle azioni, delle imprese, intraprese coerenti. Se guardiamo con un teleobiettivo vediamo particolari che nel nulla prendono rilevanza e offrono un sacco di appigli dal punto di vista del “è possibile provare a”. Se non mi predispongo a questa sensibilità di osservazione delle cose fini non le vedo. Se non alleno lo sguardo riflessivo, noto solo il botto, l’infrazione della regola… e si attiva solo la risposta burocratica “avete 24 anni, dovete andare”. 

L’ipotesi viene costruita assieme, facendo fatica, ma trovando piacere. L'ipotesi è che il gruppo faccia fatica a rielaborare la sua storia, come gruppo e come gruppo in quel servizio. Come gruppo ipernutrito di occasioni che non bastano più. Sentono che se ne devono andare. Forse sento che il gruppo si scioglierà. Ma questa cosa è dolorosa, non riescono a farla. Non hanno un accompagnamento ad elaborare la possibile separazione. Separazione dal centro, dal gruppo, da una fase della vita. Questo è il tipo di significato che abbiamo provato ad attribuire. Il covo diventa la cova. il nido. 

Se attività deve essere, attività è rileggere l’esperienza. Perchè diventi comprensibile per loro. Fare in modo che le cose vissute non siano un accumulo di cose fatte. C’è da accettare che c’è di mezzo del dolore. Attraverso la narrazione, che legittima particolari e cose piccole. E’ come provar a distillare un liquore. Provare ad estrarre un senso, delle possibilità e delle prospettive. Questo ci fa fare ipotesi che consentono azioni forse congruenti. Forse l’azione può essere poi anche semplicemente riutilizzare un’azione che stanno già facendo. Ma recuperare un grado di consapevolezza richiede lavoro. “Stanno lì svaccati sul divano perchè non sanno cosa fare”. Se la lettura è solo questa non serve essere educatori. Lo dice pure mia zia dei giovani. A noi è chiesto di leggere un po’ di più. Di mettere in campo qualcosa d’altro. A noi è chiesto di leggere e mettere in campo qualcosa che permetta al ragazzo di rileggere e dare significato a ciò che sta vivendo. Questo ci dà possibilità di qualcosa. Non la possibilità di attivarli per forza. Non di fargli fare qualcosa di diverso per forza perché stare sul divano tutto il giorno è sbagliato. Ma entrare in relazione e offrire delle opportunità. 

Cosa vuol dire pensare?- Marianella Sclavi

Uno degli strumenti che ci viene rifilato più di frequente oggi è il sondaggio di opinione. La sanità, la riforma… chiamo individualmente un...