4. Ogni scompiglio crea un nuovo inizio - Anilda Ibrahim

Anilda Ibrahimi - Scrittrice. 

Lo scompiglio del mondo è il titolo che mi è stato assegnato. Mi sono chiesta: che contributo posso portare? Ho chiuso la telefonata e poi ci ho pensato: io scrivo romanzi, io racconto la vita. Ma raccontare la vita è fare politica. I miei romanzi iniziano sempre con un altrove in cui arriva qualcuno che sta cercando un altrimenti. 

Nel postmoderno, quale linguaggio uso con mia figlia? Dopo 5 minuti, oggi, ogni novità diventa già vecchia. Volevo raccontare la trasmissione femminile, che era escavazione sentimentale. Attorno al fuoco, le storie di famiglia. Io ancora rammento le storie dei miei trisnonni. Mia figlia al massimo, se si ricorda qualcosa dice “una tua vecchia zia”. Per lei le storie di famiglia sono una realtà che riguarda sua madre, non lei. Si è reso più fragile il filo della storia. Questo è il post moderno

Io sono ossessionata da la grande storia. Forse perchè mi tocca in prima persona. Accade qualcosa, in tutti i miei romanzi. Le piccole esistenze e la grande esistenza. Le piccole esistenze sono costrette a sopravvivere di fronte alla grande esistenza. Io sono nata nel 72, in un posto dove fino a 18 anni c’era una dittatura. Il muro di Berlino mi ha trovato 17enne. Non c’è stato giorno in cui non mi sono chiesta: se non fosse caduto il muro, quale sarebbe stata la mia esistenza? Mi sono vista insegnante di lettere. Essere insegnante al femminile è un po’ penalizzante. Perchè l’insegnante di lettere, al maschile, legge romanzi ad alta voce e tutte le allieve si innamorano di lui. E attraverso lui della letteratura. Io immaginavo che avrei letto Hikmet a voce alta e che, anche se ero una donna, loro si sarebbero innamorati. Non è andata così. Ho avuto una borsa di studio, sono andata in Svizzera. Poi ho lavorato per le Nazioni unite, in Italia, sui diritti dei rifugiati. Poi ho  incontrato il solito italiano e mi sono fermata. Io nei miei romanzi parlo dell’altro perchè sono storie ancestrali che fanno parte del mio dna. Non faccio romanzi autobiografici. Non  muoio dalla voglia di raccontarmi. Ma la letteratura è ciò che fa diventare un argomento che riguarda lo scrittore un argomento che riguarda tutti. 

Le masse informi, che arrivano senza identità. Non è una novità. E’ una storia deja vu. E non è nicchia. Non è storia personale. Le grandi navi del 91. Che sembrano piene di formiche. Ci sono ancora queste immagini nel nostro immaginario collettivo. Oggi quella è una comunità più che integrata. Metto anche me dentro. Sappiamo come è finita. Perchè non riusciamo a riconnettere queste due immagini? Chi arriva oggi e chi è arrivato nel 91. L’esito di quelle migrazioni è l’esito possibile di quelle di oggi? Io mi sono fatta un’idea. Quando mi chiedono:  tu hai mai sofferto il razzismo? Io rispondo sempre di no, perchè non l’ho sofferto. Sono arrivata da privilegiata. Ho casa a Prati. Non faccio paura al vicino di casa, io. Noi abbiamo messo sovrastrutture religiose, culturali etc… ma in fondo in fondo il razzismo è sempre economico. Le risorse stanno finendo. Siamo fragili. Abbiamo paura che qualcuno ci tolga qualcosa. Nessuno nel mio quartiere si è mai domandato se io sono un pericolo. Certe volte mi dicono “quell’accento così francese…” certe altre “ho pensato che è meridionale…” Io ho provato a rispondere “sono finlandese, non si vede?” E mi dicono “ci avrei giurato”. Nessuno mi colloca dalla parte di mondo sfigato. 

Io sono un’esteta. Vedo ragazzi che vendono foulard in spiaggia, senegalesi, che sono ragazzi bellissimi. E la gente pensa che sono “brutti e cattivi”. Anche brutti, non solo cattivi, capite? Anche la bellezza ha un filtro. Dipende da se sei nella parte giusta o sbagliata. Il calciatore, di successo, nero, africano, è bello. Il migrante che scende dalla nave è brutto. C’è più differenza tra Prati e Tor Bellamonaca che tra Prati e il centro di Tirana. Il razzismo è economico. E le faglie del mondo non sono sempre dove le pensiamo. 

Nel mio secondo romanzo parlo della storia di uno stupro durante un conflitto armato, nel 99. L’ultima guerra nei Balcani. Io lavoravo per il CIR. Ho fatto quasi due mesi in Sicilia in un campo profughi, per un censimento. Ho voluto raccontare la storia dello stupro, che viene usato come arma di sterminio. Serbia, Rwanda, Congo… Isis. Stupro come annientamento dell’altro, da dentro. Metto incinta le tue donne. Tu porterai dentro il nemico. C’è l’umiliazione di usare il corpo di una donna, per mettere al mondo il nemico. Racconto la storia di una ragazza, 17 anni, presa dai serbi, resta incinta, salvata da volontari in Svizzera, perde tutto: la lingua, i genitori, il fidanzato, i fratelli, la terra, la casa, i luoghi conosciuti…. ha perso il suo mondo. Tutto. In una notte. Il suo mondo è in pieno scompiglio. Ma questo scompiglio crea un nuovo inizio. Ogni scompiglio crea un nuovo inizio. Ci metterà tanto. Giorno dopo giorno, nel suo quotidiano. Ma ogni scompiglio crea un nuovo inizio. Non “fino a che non scorda” perchè non si scorda. Ma fino a che non si trasforma. Fino a che ciò che è accaduto non diventa altro. Fino a che non ha un nuovo inizio. Il nuovo non è ciò che aveva progettato. Lo rifiuta. Lei rifiuta quel corpo che esce dal suo corpo. Lei non vuole essere madre. Lei vuole avere 17 anni, fare ciò che le ragazze a 17 anni fanno. Ha difficoltà ad approcciarsi al momento della nascita. Non accetta quel nuovo inizio perchè non è il suo nuovo inizio. Si difende. Non vuole toccare il bambino. Non vuole entrarci in relazione. Non vuole compromettersi con lui. Ma poi trova la forza di ripartire. 

Empatia. Non è solo nei confronti delle persone. Anche delle storie. Ad un certo punto ci sono certi argomenti che ci stanno a cuore. Certe battaglie ci chiamano e diventano le nostre battaglie. Mentre assistevo le donne dello Zaire, raccontavano degli stupri, con ritmi tremendi. Quando c’è emergenza e c’è una fila di persone in queste situazioni non hai tempo per trovare uno psicologo con esperienza, o un’assistente sociale…io davo la prima assistenza. Come sapevo fare. Ma cos’è la prima assistenza?  Erano solo parole. Anche se fosse stata un’assistente sociale, se non aveva risorse, cosa poteva offrire? Solo parole.  “Si, ma io stasera dove vado a dormire?” E io dovevo chiamare una rete di associazioni e volontari, fino che non trovavo un posto letto. La cura. 

Ma ho scoperto scoperto anche un’altra cosa. In quel quotidiano infernale, a volte le parole salvano. L’esserci salva. A volte prendere per mano, dare una carezza, dire “andiamo a prendere un caffè” ha un peso nella vita delle persone. Uscire noi dal ruolo, uscire dalla routine. Per permettere all’altro di uscire dal suo ruolo solo di vittima. Dalla sua routine di sconfitto. Perchè l’altro non è solo ciò che vediamo noi in quel momento. Emergevano altre storie. Ascoltare la storia dell’altro è di una potenza enorme. Ascoltare la storia è molto lontano dal dover solo scrivere la storia per il riconoscimento dello status. Ascoltare la storia è entrare in contatto. Non è il ruolo che salva. E’ riconoscere in sé e nell’altro una comunanza data dall’essere entrambi esseri umani
E permettere all’altro di far vedere che a volte non c’è connessione tra le azioni e le tragedie che capitano. Adesso la grande storia l’ha travolta. La grande storia ha rimescolato le carte e lei si è trovata dalla parte sbagliata. Ma noi sappiamo che lei non ha colpa in questo. E sappiamo che avremmo potuto trovarci a parti inverse. Noi proviamo a governare la nostra piccola storia. Ma nessuno è immune della grande storia e da ciò che comporta. Nessuno di noi. 

Grande storia, piccola storia. Non c’è bisogno di vivere una grande guerra per viverne gli effetti. E anche vivere in una grande guerra non impedisce di vivere la tua piccola storia. Non è che chi stava lì mentre Saddam veniva catturato aveva una esistenza che era definita solo da quell’evento. La grande storia attraversa la piccola storia. A volte la sconvolge, ma non la sostituisce. 

Identità. Non ha più nessun senso di parlare dell’identità come di qualcosa di statico. La nostra identità è in movimento continuo. Giorno dopo giorno. L’identità personale, identità lavorativa, identità letteraria. Ed è relativa. Io per voi sono una scrittrice albanese. Ma io non ho mai scritto in albanese. Non so cosa sarei stata se avessi scritto in albanese. Quale sarebbe stata la mia identità se io avessi scelto di scrivere in madrelingua? Se io vado a Parigi, sono una scrittrice italiana. Invece qui sono la scrittrice albanese. La letteratura albanese non mi riconosce, perchè non ho mai scritto in albanese. Cosa definisce la mia identità? La nazionalità? Il luogo di nascita? La lingua che uso? Io mi definisco italofona. Almeno chi mi ascolta non pensa che io non abbia la presunzione di presentarmi come italiana. Ma non sono sempre stata una scrittrice italofona.Di sicuro non lo ero prima di venire in Italia. L’identità dell’odierno. Non c’è bisogno di diventare migranti per cambiare identità. I miei suoceri, che non hanno mai cambiato posto, sono cambiati. Perchè il mondo è arrivato a casa loro. il loro mondo è cambiato, anche se non si sono spostati. Alla fine non c’è bisogno di essere migranti. non c’è bisogno di cambiare nemmeno quartiere. La loro identità non può essere più quella di prima. perchè c’è contaminazione.  E non c’è immunità che resista. 


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