Al funerale Silvia accoglieva con un sorriso: “Ce l’hai già?”.
E ti metteva in mano “La
steppa urbana”.
Mentre tutti pensavamo al fatto che ci sentivamo un po’
orfani, lei silenziosamente ci diceva che lui quel sentimento l’aveva già provato, nel suo
senso innaturale e contrario, per una figlia.
E ci aveva già sofferto, e pensato e pregato e scritto sopra. Non da solo, con lei.
La scrittura, non come desiderio o vanità, ma come necessità
e libertà.
Scrivere per comprendere. Fissare perché qualcun altro possa
prenderne.
Paternità, anche questa, in fondo.
Chissà se si sentiva “orfano al contrario” solo di Sara.
“E’ tempo di tornare nelle catacombe”. Ci ha detto un giorno. Insieme a mille altre cose.
Ed io l’ho pure incalzato: “Non si può mica scappare”.
C’era tanto in quella risposta.
La (forzata) crescente confidenza con la morte.
La sua umanità (che anche i padri sono esseri umani).
L’accettare di non poter sempre comprendere subito.
Scavare. Approfondire. Sostare.
“La virtù
dell’impazienza” non l’ha scritta lui. Non sarà un caso.
Giovanni Bianchi era una grande oratore.
Ma non raccontava la storia. Evocava i miti. Ed in parte
li creava.
Non sta nella relazione tra verità e falsità la differenza.
Ma nella capacità di riconoscere e indicare la sacralità delle
cose.
Che il sacro non si vede da come un uomo parla di Dio.
Ma da come parla dell’umano.
Rabbia, dolore, vita e politica comprese.
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