Un po' appunti, un po' trascrizione, del momento di ricordo di Giovanni Bianchi a #Valorelavoro a Napoli. Con Franco Passuello, Renzo Salvi e Lorenzo Gaiani. Sul canale Youtube delle Acli l'Intera registrazione.
Roberto Rossini:
L’anima
delle associazioni si fonda sugli incontri e le relazioni tra le persone.
Questa associazione ha avuto una relazione molto profonda con Giovanni Bianchi
che è stato un presidente che ci è stato molto vicino e che è stato molto importante per le cose
che ci ha detto e la testimonianza che ha portato. Ci ha lasciato qualche settimane
fa. Il funerale è stato molto particolare per chi c’è stato. Non si può dire
che sia stato un funerale molto ricco, ma è stato così. Si sentiva una
ricchezza e una straordinarietà di un evento che ci ha colpito molto. Allora,
in questo incontro di studi, volevamo fare un ricordo. Le celebrazioni sono
celebrazioni. Non è facile far rivivere certe situazioni. Non è facile dire in
che modo farlo. Allora abbiamo pensato di spezzettare questo modo. In vari
momenti, cercheremo di ricordare Giovanni. Adesso volevamo cominciare in un modo
molto semplice. Una cosa molto informale, con alcune persone che gli sono state
particolarmente vicine e certamente Lorenzo Gaiani, per tante ragioni umane e
politiche associative, è una persona che gli è stata vicina. Abbiamo parlato
con Silvia, abbiamo chiesto a Lorenzo di animare questo momento. E lo abbiamo
fatto con un presidente che per noi è un presidente importante, lo abbiamo
conosciuto, ci fa molto piacere che Franco sia qui con noi, ci fa piacere, anche
perché è importante recuperare un’anima profonda. E poi c’è Renzo Salvi che ha
conosciuto Giovanni e credo che abbiate parlato tanto. Questa oretta ce la
concediamo in modo informale e tranquillo per ricordarci un po’ la figura di
Giovanni.
Lorenzo Gaiani:
Tutti
avremmo preferito che questo incontro non ci fosse e che Giovanni fosse seduto
lì. Come sarebbe stato se la malattia non ce lo avesse tolto. Ma siccome
crediamo nella Provvidenza, anche se non sappiamo come, pensiamo sia in qualche
modo inserito nei suoi disegni provvidenziali.
Gli
articoli, i ricordi, i messaggi che ci sono stati, da ultimo anche il messaggio
che il Capo dello stato ha voluto rivolgere a questo convegno, ci danno la
profondità di quello che Giovanni è stato all’interno della società italiana,
più ancora che della nostra associazione. Perché se Giovanni è un maestro, una
guida della nostra associazione, lui non apparteneva soltanto a noi.
Apparteneva al complesso della Chiesa e della società italiana. Ed era un
patrimonio, è un patrimonio che non deve andare disperso.
Nel
corso degli anni che ho passato accanto a lui, e sono stati molti, mi sono reso
conto di come lui avesse la capacità di riuscire sistematicamente a mettere in
relazione tra di loro mondi che erano molto diversi. Alcune persone che hanno
lavorato proficuamente con le Acli e per le Acli e che appartenevano a storie e mondi diversi,
non avrebbero potuto svolgere il loro compito se in qualche modo Giovanni non
le avesse messe in relazione. Perché questa era la sua capacità principale,
costruire relazioni. E ciò derivava dalla sua grandissima capacità di ascolto. Io
mi ricordo lo slogan che lui adottò nel 1994 nella sua prima campagna
elettorale da deputato “Tutti vi parlano, io vi ascolto”. E’ un bello slogan. Nel
suo caso non era solo uno slogan.
Penso
soprattutto alle due persone con cui condivise più di 10 anni di vita, insieme,
in via degli orti di Trastevere, vicino alla sede nazionale, nell’appartamento
che era stato messo loro a disposizione. Bepi Tomai e Pino Trotta, che lo hanno
preceduto nel Regno. Due persone diversissime tra loro, che forse non si
sarebbero mai incontrate, se Giovanni non le avesse messo assieme. E la loro
presenza, congiuntamente, è stato per noi un momento molto forte di quella
rifondazione che il nostro movimento ha avuto negli anni 90. Ovviamente anche
con il concorso di molte altre persone, a partire da Franco che poi prese il
posto di Giovanni, da Camillo che ci ha lasciato anche lui, di altri amici che
per fortuna sono ancora tra noi.
Per
non dare un tono troppo luttuoso, per quanto il dolore sia sempre presente in
noi per questa perdita, per questo distacco, credo sia opportuno rivedere le
cose importanti che Giovanni ha fatto nella sua vita, vederlo con gli occhi dei testimoni. Se io
gli sono stato vicino dagli anni 90 in poi, qui al tavolo ci sono persone che lo
hanno conosciuto molto prima. Renzo addirittura è stato suo allievo. Al liceo,
a Como, nel mitico 68, quando Giovanni era un giovane insegnante e lui era
all’ultimo anno del liceo. Franco l’ha conosciuto nelle vicende molto difficili
delle Acli, all’inizio degli anni 70, in particolare all’interno della componente della sinistra delle Acli e in
qualche modo hanno determinato, assieme a lui, a livelli diversi, quelli che
sono state le vicende della Acli lombarde, milanesi nazionali, in quegli anni.
Prima
Renzo mi stava facendo vedere quel libretto con la bibliografia di Giovanni dal
67 all’ 81. Credo siano 2-300 titoli. Ma Giovanni ha continuato a scrivere
anche dopo l’81. Fino al giorno in cui le forze gli sono venute meno. Quando qualcuno
metterà mano alla sua biografia, e prima o poi bisognerà farlo, quando lo
faremo vedremo scopriremo il lascito che Giovanni ci ha lasciato.
Per
un ricordo, un pensiero, anche di prospettiva, vorrei cominciare a chiedere a
Franco e Renzo come è maturato questo incontro e come questo si è sviluppato diventando
una condivisione, una collaborazione, una amicizia soprattutto. Vorrei partire
da Franco, che poi è diventato uno dei più stretti collaboratori come
Presidente Nazionale e suo successore nel 1994, quando Giovanni si dimise per
andare in Parlamento.
Franco Passuello:
Quando
ero appena tornato dal funerale di Giovanni, che ha avuto quelle caratteristiche
che ha ricordato prima il Presidente, uno di voi mi ha cercato per chiedermi di
scrivere qualcosa su Giovanni. Ho detto di no, perché non ero in grado di
scrivere qualcosa. Non ho scritto nulla fino ad oggi. Nello stesso tempo mi
urge dare un po’ testimonianza. Del nostro rapporto e di quello che Giovanni è
stato. Faccio ancora fatica. Quindi mi scuserete se non sarò proprio
all’altezza della situazione.
Ci
siamo incontrati per la prima volta qui a Napoli, nel novembre del 1974, alla
fiera di Oltremare. Eravamo al secondo convegno nazionale dei cristiani per il
socialismo, che discuteva su movimento operaio, questione cattolica, questione
meridionale. Avevamo 35 anni, a marzo ne faccio 79, lui li avrebbe fatto ad
agosto. Un bello spazio di vita. Che ne dite?
Fu
Bepi Tomai a presentarci. Eravamo capitati nello stesso gruppo. E l’intervento
di Giovanni mi colpì. Io non lo conoscevo. Era forse un po’ meno radicale di
come io ero allora. Ma molto colto e ben argomentato. E per la prima volta l’ho
visto maneggiare i suoi foglietti. Come un gioco di prestigio. Ho tentato molte
volte di imitarlo, non ci sono mai riuscito. Per inciso, non fu un convegno
tranquillo. Erano i giorni del tentativo di golpe. La notte noi vedemmo
arrivare una trentina di operai del servizio d’ordine del PCI di allora e ci
dissero: guardate, stanotte bisogna vigilare. Lo dico per ricordare i tempi di
cui stiamo parlando.
Questo
ci conferma che Giovanni non è mai stato uomo della appartenenza, delle
identità rigide. E’ stato persona di inquieta ricerca e in quella fase della
sua vita fu un militante, immerso in quello che lui stesso ha definito “la
corrente calda”. In uno scritto in ricordo di Pino Trotta annota: “Pino ha praticato più di me le minoranze
rivoluzionarie, ma molto meno di me le vulgate della rivoluzione”. E altrove
“Correva il 1968 e correvano le nostre
vite, correvano dietro alle parole d’ordine di un mito rivoluzionario e insieme
dietro alla Parola di Dio”. C’è un’epoca chiusa in queste due cose.
Giovanni
del resto al Congresso di Cagliari del 72, è lui che lo scrive, aveva votato
per la sinistra di Geo Brenna, di cui ero anch’io un animatore. Nel 76, era lui
il presidente regionale, le Acli lombarde fecero un documento di sostanziale
appoggio alla presenza di indipendenti nelle liste del PCI, questo procurò reazioni
dell’allora Cardinal Colombo, che Giovanni in un colloquio riuscì a placare. E’
lui che lo scrive.
Giovanni
dunque, è questo che volevo dire, stava sulla frontiera, con non poche
incursioni oltre confine. Ma aveva sempre l’aria del bravo ragazzo, affidabile.
Accadeva perché lui nell’essenziale, la Fede e la Chiesa, affidabile lo era. Clericale però, mai. “Ti tieni stretti i tuoi fondamentali diceva,
e traffici con tutti, anche con il
diavolo” e ha scritto “Mi sono sempre
fidato dei ritmi del dialogo e della conversione” lo ricordava già Lorenzo.
L’unità nella diversità è stato uno dei suoi carismi. La stessa nostra amicizia
lo dice.
Se
ricordo la comune militanza di quel tempo, non lo faccio per attenuare la
diversità dei nostri percorsi di vita, delle nostre culture, delle nostre
scelte politiche. La ricordo per spiegare che la nostra amicizia, nonostante
queste diversità, è stata tenace e sobria, senza smancerie, ma capace di
affetto vero e con radici non superficiali.
Vado
per accenni. Dopo il congresso di Firenze del 75 e fino agli anni 80 ci siamo
incontrati più volte in riunioni, seminari, corsi. Senza però avere l’occasione
di lavorare veramente assieme. Nell’83 ci furono occasioni di incontro e riflessione
comune sul tema, allora per noi ancora poco definito, di una alleanza
trasversale dell’associazionismo democratico che rinsaldasse l’autonomia e il
protagonismo del civile, nella linea della crescita politica della società
civile che Rosati aveva tracciato nel congresso di Bari del 1981. Ne nacque, tra non poche discussioni, anche tra me e lui,
la stagione delle convenzioni dell’associazionismo, del nuovo patto sociale, che
sfociò, anni dopo, nella nascita del Forum
del terzo settore.
In vista
e dentro il congresso di Roma la nostra collaborazione si è fatta assidua, intensa,
fino a diventare alleanza strategica. Mi sembra utile ricordare, perché qualcuno
sostiene il contrario, che quella tra Rosati e Bianchi non fu una successione
indolore. In quel congresso si confrontarono 2 schieramenti. Giovanni, con
Michele Giacomantonio, me e molti altri, stava in quella che era considerata la
minoranza di sinistra. Lui fu corteggiato perché si staccasse da noi, ma
rifiutò. A congresso concluso risultò con sorpresa, di molti ma non nostra, che
avevamo, seppure di poco, la maggioranza in CN. Scegliemmo la via di una unità
negoziata che però prefigurava un rinnovamento. Fu per questo che Giovanni e
Michele entrarono in Presidenza ed io in Consiglio di Presidenza, per
l’occasione inventato.
Michele
ha pubblicato su Facebook per ricordare Giovanni una foto sovraesposta e un po’
sbiadita. Ci ritrae a Lipari assieme ad Aldo De Matteo. La foto la scattò Pino
Trotta che era con noi. Era, se non sbaglio, l’estate del 1986 e stavamo
preparando il convegno di studi che dopo molti anni si sarebbe tenuto di nuovo
a Vallombrosa. Ci saremmo poi tornati successivamente anche dopo, ma quello fu
la prima volta. Maturò in quel periodo e in quel soggiorno di Lipari
l’orientamento di candidare Giovanni. Dopo la candidature di Rosati al Senato, nell’87,
Giovanni fu eletto in contrapposizione proprio con De Matteo, che nel congresso
di Roma era schierato con la maggioranza entrante.
Giovanni,
una volta che aveva scelto, sapeva diventare audace e determinato. Ho in mente
molti esempi a cominciare dal nostro camminare assieme sulle vie dalla pace Time
for peace, Bagdad, Mirsada uno e due, stagione di grandi rischi, corsi
personalmente. Intensa e appassionata, Si costruirà una straordinaria unità tra
diversi. Che seppe davvero guardare oltre il pacifismo precedente.
Furono
anche giorni di grande fraternità spirituale. Ne ricordo uno, tra tutti. Non
perché sia in sé memorabile, ma perché lo è per me. Siamo a Gerusalemme. 1990,
Time for peace. E’ la vigilia di Capodanno. L’iniziativa è riuscita, in 10.000 europei,
palestinesi, israeliani, hanno cinto le mura di Gerusalemme, con una
straordinaria catena umana. E’ mattino presto. Ci troviamo in albergo. Giovanni
mi propone di camminare insieme per la via dolorosa. La percorriamo sostando e
pregando. Stazione dopo stazione. Fino alla Basilica del Santo Sepolcro. Entriamo.
Visitiamo la chiesa e poi il sepolcro, solo per i pochi istanti consentiti
dalla pressione di turisti e pellegrini e dalla gestione non proprio spirituale
che ne fanno i custodi copti. Ne usciamo con una forte amarezza. E ci troviamo insieme
a interpellare Dio, quasi aspramente. A chiedergli: Perché permette, lì nella
città santa, dove il mistero pasquale si è compiuto, il duplice scempio, di una guerra sanguinosa e senza fine e di una
tunica che resta oscenamente lacerata, quella del cristiano? Questo modo di
rapportarsi a viso aperto con il Padre è stato uno stile di Giovanni, fino ai
suoi ultimi giorni.
Giovanni
è stato coraggioso anche in altre situazioni. Meno ricordati e meno spirituali.
Che abbiamo affrontato assieme. Su tutte, la grave crisi finanziaria. Oh, una
grave crisi finanziaria delle Acli, che si trovò a dover gestire appena eletto.
La crisi finanziaria era in realtà la spia di allarme di una crisi più generale,
che avrebbe potuto diventare crisi dell’intero sistema aclista. Con Giovanni e
Beppe Andreis ci capitò in quella fase di dover mettere con determinazione le mani in una pasta non proprio profumata.
Qualcuno di voi c’era.
Il
coraggio di Giovanni mi ha riguardato anche personalmente. Quando mi ha scelto,
prima come vicepresidente vicario. E poi come candidato a successore. Non sarei
mai diventato presidente se lui non mi avesse scelto. Non è stata senza
problemi per lui quella scelta. Per questo dico “coraggio”. Nell’associazione
creò problemi. Nella chiesa, in un certo settore dei vescovi. E anche nel
gruppo dirigente a noi più vicino. Lui non ebbe una esitazione. Garantisco io.
Diceva a tutti. Cominciando dalla Segreteria di Stato. Non so dire perché lo
abbia fatto. Nemmeno oggi.
In
precedenza mi aveva detto anche dei no dolorosi per me. Uno su tutti. gli avevo
chiesto, dopo il congresso di Milano, di affidarmi la formazione. Era da sempre
il mio sogno. Ero già stato capoufficio della formazione nelle Acli. Molto
francamente, a tu per tu, mi disse: Franco, una cosa così non la reggo. Mi
creerebbe troppi problemi, dentro e fuori, le Acli. Mi fu affidato, e forse è
una cosa di cui devo ringraziare, il dipartimento Pace e sviluppo e rapporti
internazionali. Tra noi ci furono anche momenti di dibattito teso ma che non si
tradussero mai in litigio e tanto meno in lacerazione.
Fu
così sul versante della vita cristiana. Giovanni l’ha raccontato più volte. Con
Pio Parisi e Pino Trotta noi sostenevamo l’urgenza di una radicalità evangelica
da testimoniare anche nelle Acli e anche in politica. Stavamo preparando il
convegno di Urbino all’insegna di una
opzione forte, lo ricorderete.
(Tra
l’altro è anche l’occasione in cui abbiamo incontrato la prima volta don
Nicolini, con una stupenda lectio sul buon samaritano, poi facemmo anche con
lui un ritiro spirituale a Bologna, Non è a prima volta che io lo incontro. Il
convegno di Urbino su una opzione forte: convertirsi al vangelo, vie nuove per
la politica. C’entrano con le cose che ho sentito stamattina da don Giovanni,
erano musica per le mie orecchie. Questo ci portò a dichiarare solennemente,
proprio ancora qui a Napoli, nel nuovo
patto associativo sottoscritto da tutti i delegati, nel congresso 1996, che
solo il Vangelo fa nuove le Acli).
Noi ci
facevamo forte del magistero instancabile di Pio e di una affermazione
inequivocabile di Dossetti. Che frequentavamo in quel tempo. Un cristiano, se
vuole restare fedele alla sequela, può impegnarsi
in politica solo in casi straordinari e per poco tempo. Come aveva fatto lui.
E’ un’intervista a Baillame in cui fa questa affermazione.
Giovanni
invece sosteneva che la contraddizione tra fede e politica è insanabile e può
solo restare aperta. In realtà la discussione era sul modo di intendere questo
restare aperta. Perché è acquisito che solo la pienezza del regno può
sciogliere la contraddizione. Non saremo noi a costruire il regno. Il problema era,
ed è: può un credente stare nel sociale
e nel politico, accettando, per avere successo, di agire dentro le sue distorsioni
e degenerazioni invece di contrastarle e sanarle anche scontando la sconfitta?
Questo era il nodo.
Non
era tema astrattamente teologico per noi, ci mordeva l’anima ogni giorno nella
gestione dei corposi interessi associativi. In realtà, alla prova dei fatti, la
nostra si è rivelata una distanza più pensata che reale. Per ora annoto, non è
forse stato Giovanni a nutrire una vera passione per don Giuseppe fino a fondare
e presiedere i circoli dossetti? Curioso, no?
Una
certa tensione tra me e Giovanni c’è stata anche sul versante politico. Per lui
e Pino Trotta era necessario che il cattolicesimo democratico giungesse ad un nuovo
rapporto con la sinistra, scontando però una fase agonistica sostenuta con un
processo di purificazione e rinnovamento
sui due fronti. Insomma, finito il PCI e la DC, c’era ancora bisogno di un
partito di ispirazione cristiana, un partito di cattolici democratici. Che poi
è stato il partito popolare.
Io
invece, non da solo naturalmente, pensavo che dopo il 89, la crisi stava
precipitando. Era
dunque
urgente riunificare ciò che la guerra fredda aveva tenuto innaturalmente
diviso. La sinistra cattolica e le sinistre di altre matrici. Si trattava
quindi di costruire da subito, sulla scia dell’ulivo, un partito della sinistra
unita. Questa differenza, torna ancora il suo carisma, non ci impedì di
lavorare assieme. Non facemmo due correnti contrapposte. Fu stagione densa di
iniziativa politica. La cosa bianca. Alleanza Democratica. I cristiani sociali.
L’ulivo. Fummo dentro tutte queste esperienze e questi tentativi. Il gruppo
dirigente, plurale e unito, di comune accordo, in queste iniziative si
dislocava ovunque. Con in testa lo stesso pensiero strategico. Quello del presidente.
Poi
le vicende del PP e della Margherita da un lato, e del PC e DS che mi hanno
riguardato da più vicino dall’altro. Con Giovanni ci siamo alla fine ritrovati
nel Pd. Di cui ho tuttora la tessera. Le cose, come sapete, non sono andate
come avevamo sperato. Noi siamo tra gli sconfitti.
Lorenzo Gaiani:
Ringraziamo
Franco per questo suo ricordo veramente intenso, potrei anche aggiungere una
testimonianza personale, io nel 94 lo accompagnavo nella campagna elettorale e mi
ricordo che ogni tanto lui rispondeva al telefono con interlocutori a proposito
della costruzione della candidatura a presidente nazionale di Franco. Lui mi
diceva sempre: tu questa telefonata non l’hai sentita e te la dimentichi. E in
effetti me ne sono dimenticato…
Renzo
è quello di noi che l’ha conosciuto prima. Renzo l’ha conosciuto nel 68,
Giovanni era l’insegnante di filosofia. La conoscenza è stata quella che ci può
essere tra un docente e un allievo. Quella che spesso resta lì, nel vostro caso
è diventata una collaborazione e un’amicizia.
Renzo Salvi:
La
modalità narrativa che scelgo è quella di porgere questo insieme di ricordi e
di interpretazioni, perché sui ricordi da soli ho sempre grossi dubbi. L’ho
definita stanotte, dopo che ieri con Lorenzo abbiamo fatto ampie chiacchiere,
non su questo incontro, ma servivano a dislocare le cose.
Diciamo
che cercherò di mettere all’inizio di ogni pezzo di ricordo una scena. Immaginate
un liceo scientifico. Talvolta la fisicità riporta a dei significati. Delle
colonne. Un timpano, Un ingresso. Un ampia sala circolare. Questo dice anche di
un orizzonte sociologico. In quel liceo, in quegli anni, noi, che non eravamo
figli di ceti borghesi, eravamo una minoranza estrema. Eravamo gli strani.
L’anno era quello annunciato da Lorenzo, era l’anno scolastico 68-69, in una
Como molto quieta che da lì a poco sarebbe stata più agitata. L’abbiamo agitata
noi.
Entra
un insegnante nuovo di filosofia e storia, sostituisce uno con cui ci trovavamo
bene. Ci faceva sgobbare, ma non era male. Questo nuovo entra e chiede al primo,
sul banco più vicino, il libro di storia, non ero io, io in genere stavo a
centrocampo, e lo apre dicendo, siete arrivati qui, benissimo, e inizia a
spiegare. Quello che accade è nitido e chiaro nella mia memoria. In pochi minuti
la classe zittisce. La classe più rognosa della scuola, per autodefinizione,
con qualche orgoglio. Perché spiegava in un modo diverso. Comincia con quello
che poi era il suo tipico modo di ragionare. Comincia a trasvolare. Giovanni,
in termini naturali, amplia tra sociologia, antropologia, economia, storia,
filosofia. Dentro quegli eventi che pure stanno sul manuale di storia e che
ovviamente rivisita.
Razione
psicologica: Questo è dei nostri. Perché noi, in quegli anni, eravamo quelli
che avevamo avuto una formazione canonica, classica, tipica dei licei. Ma intanto
potevamo leggere, perché intanto erano stati resi disponibili una serie di
testi che prima non potevamo permetterci e nelle biblioteche pubbliche non
c’erano. Russel, Mancuse. Questo parla di cose nostre. Questo è uno che scrive,
che pubblica. L’Italia del dissenso è del 1968. Pubblica di dissenso. Questo è dei nostri. E’
ovvio. Questa è la reazione di un gruppo classe un po’ agitato ma capace di
capire. Non solo, Montanelli lo attacca sulle colonne del Corriere della sera. Quel vecchio reazionario. In realtà attacca
una metafora che Giovanni usa per spiegare: paragona il sindacato a San
Giorgio, i movimento dei lavoratori alla Vergine, il drago è il capitalismo ma,
dice, può capitare che San Giorgio e la Vergine diventino streghe rispetto al
terzo mondo. Montanelli si incunea lì.
Intanto
noi andiamo a recuperare il libro, ed. Queriniana, L’Italia del dissenso e lo
andiamo a leggere. Ci rendiamo conto che lui reinterpreta, in un modo molto più
profondo di quello che sia stato anche dopo, il paese che si rimescola. Poi
siccome le voci corrono e i pettegolezzi pure, le notizie arrivano e ce le
procuriamo, salta fuori che di questo paese rimescolato lui fa parte. Giovanni
è il presidente, in quel momento, del Centro Culturale Ricerca di Sesto San Giovanni,
a monte è andato via da un po’ di tempo don Teresio Ferraroni, intanto c’è don
Carlo Fusetti, prete giornalista, uno di più ganzi delle figure conciliari di
preti dell’hinterland. Giovanni è l’aggiornamento conciliare.
Giovanni
guarda da prospettive inconsuete perché, sembra una banalità, perché studia, perché
ha studiato, ha perso il tempo e le notti. Quel tema del sottosviluppo è stato
parte del suo percorso universitario. Giovanni si laurea in storie ed
istituzioni dei paesi afro asiatici. La sua tesi è sulle comunità del
Madagascar. I suoi articoli su Avvenire, su Italia, sul Mulino, su Relazioni
sociali riguardano questo. Riguardano le donne in quei contesti africani. Quando
scrive sa di cosa parla. Montanelli, che è tutt’altro che stupido, capiva cosa
intendeva.
E’
chiara una cosa. Giovanni è anche quello
che ti scarica libri in più: guardi questo… provi a studiarle questo…(con il lei,
rigorosamente, sempre, in aula) forse se ci studia sopra… ce li portava i libri,
si dimenticava di chiederli indietro…
Era
l’insegnante con cui ci si confronta per la scelta universitaria. Che si invita
nel proprio comune, e nella propria parrocchia a parlare di dissenso. E’
l’insegnante con cui si decide di non andare a fare architettura o fisica nucleare.
Un po’ di scienze del comportamento, tra sociologia e scienze politiche sociali, più o meno.
Il
consiglio viene da un fatto, Giovanni leggeva, stranamente, i miei temi di
italiano. Perché il mio docente di italiano diceva “Di questo io non capisco di
cosa parla, leggili tu e dimmi cosa ne pensi”, lui scriveva annotazioni a
matita alla fine. Il docente di italiano le riscriveva sopra. Io non capivo,
allora, questa doppia grafia. L’ho scoperto dopo. Il discorso diventa che ci si
ritrova andando a casa sua. Conoscendo Silvia. Saretta è nata proprio in
quell’anno. Saretta è nata nel 68, lui entrava in classe con le occhiaie, non
si sapeva se era perché Sara quella notte aveva cantato o se aveva fatto conferenze
nell’hinterland. Le occhiaie erano una caratteristica storica di Giovanni, se le
è portate fino alla fine.
Quando
scopro che lui legge i miei temi? Tornando anni dopo, nel 1971, da un incontro
MPL, ci eravamo finiti ognuno per conto proprio, un incontro tenutosi in quel di Brescia, gli
avevo dato uno strappo a tornare. Ci eravamo fermati, a mezzanotte passata, a
casa sua. Dicendo: facciamo una cena, aprendo il frigo e lasciando dormire
Silvia e Sara. “Perché non scriviamo assieme? So come scrivi”. Che cosa
scrivere? Scrivere di quello che avremmo voluto leggere, ma che nessuno aveva
scritto per noi. Quindi, muoversi in ricerca. Studiare, non rinchiusi dentro le
discipline. Quella è una scelta, è una caratteristica che Giovanni si è portato
da sempre e per sempre. Scrivere insieme e mano a mano allargare il gruppo.
Mi
sono scorso alcuni titoli per vedere come, progressivamente, Giovanni pesca da
una parte all’altra. Uno lo pesca sul territorio, uno lo pesca dentro le Acli
area Gioventù Aclista, uno lo pesca nella parrocchia di don Mauro Fusetti…
Scrivere insieme. Poi le penne si intrecciano. In chiave di ricerca e multi-disciplina.
Perché, lo dicono i titoli, per certi versi e c’è un motivo: giovani, tra
classe e generazioni, la crisi del capitalismo e la pedagogia, tra uno e
l’altro… Perché è il momento in cui nessuna disciplina può dare la chiave. Intreccio
tra discipline. Intreccio tra discipline e fatti. Mai dare torto ai fatti. E’
uno degli slogan di Giovanni. I fatti esistono. Si tratta di vedere dentro l’evento
cosa c’è. Ci porta a fare un gruppo, senza nome. Una specie di redazione
multipla, rispetto alle riviste su cui usciamo: Animazione sociale, Rocca,
Testimonianze, Il tetto, Note di pastorale giovanili, La rivista di teologia
morale, Il mulino, La piccola città… la
galassia di quel mondo cristiano che si è messo in movimento e quindi in
ricerca.
Questo
è l’approccio, questa la metodica. Questo
è il tentativo che parte allora. Per quanto riguarda me, noi, un
gruppetto attorno a Giovanni. Stiamo ritrovandoci in questi giorni. Per
arrivare a quello che in seguito avremmo avuto come titolo dal cardinal
Martini: discernimento dei fatti. Quello di Giovanni è questo tipo di pensiero.
Le Acli arrivano a questo punto. Perché siamo ai primi anni 70. Però il
pensiero di Giovanni, questo è da dire, non ha riguardato solo il nostro
movimento. Il pensiero di Giovanni ha orientato una molteplicità di realtà
associate e tutta una tendenza.
Lorenzo Gaiani:
Sarebbe
in realtà molto interessante poter approfondire tutti questi elementi, credo non
mancheranno occasioni, anche da parte delle Acli, di approfondire questa
realtà, che è stata ingiustamente appiattita sugli anni di piombo. Ma c’è stato
un cambiamento importante, a partire dal fatto che una volta all’interno di un
liceo classico la provenienza operaia o contadina fosse un fatto veramente
strano. Questo era un elemento. Questo è, credo, una delle riflessioni da fare.
E credo sia uno dei motivi per cui Giovanni entra nelle Acli. Trova nelle Acli quello
che è la sostanza di questo tipo di ricerca che stava conducendo, anzi, il
convenire, il fare sintesi. Soprattutto (e lo ha ricordato lo scorso anno in un
memorabile discorso rivisto su youtube, nel congresso di Como) come il valore
fondamentale che le Acli hanno sempre preservato, uniche tra associazioni
laiche e cattoliche, è la democrazia. Proseguirei chiedendo quale è il lascito di
Giovanni, il lascito storico, di pensiero, su cui è possibile lavorare, in
prospettiva. Alle spalle di tutte le cose importanti che avete vissuto.
Franco Passuello:
Per
me il lascito più prezioso di Giovanni, lo posso dire oggi, è la sua vita. Una
vita capace di testimonianza. Si è fatto un gran parlare, a proposito e a sproposito,
della carenza di laici cristiani adulti. Il tema della laicità è tornato anche
da don Giovanni prima. Ecco, Giovanni Bianchi è una figura luminosa di laico
cristiano adulto. Attenti a non farne una santino, però. Non c’è bisogno. Lui
ha riproposto, nelle Acli, la figura dei santi minori. Che è altra cosa. Giovanni
di santità feriale e di minorità ha fatto lungo tirocinio, in questi ultimi
anni. La sua esistenza ha conosciuto una vera cesura, una maturazione intensa e
dolorosa da cui dobbiamo imparare. Nella vicenda di sua figlia Sara, nel corpo
a corpo con la sua malattia, con la sua sofferenza e con l’inesorabilità della
sua morte. Nelle parole che Giovanni ha pronunciato nell’eucarestia di commiato
da lei c’è un grido che si rivolge direttamente a Dio e lo chiama in causa,
come già a Gerusalemme. Chiama Dio in causa per questa sofferenza. Dove era
Dio, che ha fatto Dio? Certo, Poi c’è un fiat, pronunciato nel dolore e con
fede. La ballata di Sara è una testimonianza ardita, lacerante, struggente.
Naturalmente
c’è molto altro, nella vita di Giovani, che ci chiede una responsabilità.
Scelgo qui mettendoci del mio due altri lasciti che potrei indicare: la vita
cristiana e la politicità delle Acli.
Le Acli
hanno senso se sono capaci di testimoniare da laici cristiani e per questo
laicamente la propria fede. Non sarà mai una testimonianza perfetta, la nostra,
ma questo non ci esime dall’invocar, tentare e tentare ancora. Nessuno lo farà
al posto nostro. E’ una responsabilità che non possiamo eludere. C’è chiesta una
tensione instancabile ad essere cristiani credibili. Una ricerca che non ci
impegna, quante volte ce l’ha ripetuto Pio Parisi, in pretese di perfezione, ma
che si fa nella invocazione, nella conversione e nella preghiera. La fraternità
nella fede, un punto cui tengo molto anch’io, ne parlavamo con lui nell’ultimo
congresso delle Acli, forse non casualmente, il fare comunità sono costituiti
per noi. Sono parte fondamentali dalla nostra missione e sono contraddetti
dagli agonismi più o meno nobili che spesso ci appassionano e ci dividono. Noi
non siamo un partito politico di altri tempi. Siamo una comunità di credenti,
posta dai padri fondatori e dalla Chiesa su una frontiera decisiva, scomoda, mobile,
rischiosa. Siamo insomma, oggi lo possiamo dire e lo siamo stati nella nostra
storia, un pezzo di Chiesa in uscita.
Come ci invita ad essere Papa Francesco. Ha scritto Giovanni: Le Acli sono un intreccio
di grandi e piccole storie comunitarie. E’ da questi fili molteplici, pare a
me, che il discorso possa a questo punto convergere intorno al tema della
vocazione di un cristiano, un cristiano normale, vocazione che il Concilio ecumenico
Vaticano II individua nel comune e
diffuso sacerdozio del popolo di Dio.
Leggo
un brano da un libro che Renzo ha lì. Perché non sapevo lo avesse scritto. Il
primo. Pubblicato a marzo di quest’anno. Si intitola Il lito annunzio del
bocco. Leggetelo se potete. Ha un sottotitolo insolito, anche per Giovanni. La
Madonna che dimenticava il rosario a casa. Si riferisce all’esperienza di Angela
Volpini e all’esperienza di Nuova Cana. Autori: Sara e Giovanni Bianchi. Il brano che ho scelto: Che fare? E’ il
titoletto del capitolo. Dunque. Creare
cenacoli misti e vitali. Luoghi meticci, Percorsi mistici, ma non devozionali. Questo
è l’ultimo Giovanni. La sua eredità. Lungo i quali si pensi politica. Senza
curarsi di vincere le elezioni prossime venture. Farlo per gli altri. Farlo per
la gente. Farlo per gli altri e non per sé. Così resta aperto l’azzardo mistico,
che può re-incontrare politica e comunità. Per le strade di questo mondo. Perché
la politica accoglie, dovrebbe, mentre la pubblicità spaccia, illude e seduce e
delude e. Sicuri che il realistico sia sempre più reale della mistica di
Francesco (inteso come Assisi, inteso come papa?) Non resta almeno un poco vero
che In una crisi epocale, sovente,, la cosa più realistica è un pezzetto di visione
e di pensiero e magari di teoria? Forse c’entra con il lavoro che state
facendo anche voi, qui in questi giorni.
Il
secondo lascito. Con Giovani “l’autonomia del civile da” la fine del
collateralismo, che per noi è stata più difensiva che generativa, ha lasciato
il posto ad una “autonomia del civile per”. L’autonomia ha senso se è messa in
gioco in un progetto, se non è ripiegamento autarchico.
Il
civile è, deve tornare ad essere, questo è compito nostro anche, il luogo
privilegiato, di una sovranità popolare che si fa consapevole, che sa giocarsi
nella fatica di condividere un progetto di società, avendo chiaro che la sua
realizzazione solo in parte può essere delegata ad un pensiero politico, soprattutto
quando è in macerie come ancora oggi, è soprattutto compito di una società. Che
si incivilisce continuamente.
Giovanni
è venuto a Roma con un’idea di progetto politico che si è via via precisato. E
inventò una definizione, ricordate, Acli come Lobby democratica e popolare. Ma
essere lobby però non si riferisca
soltanto alla difesa e alla promozione degli interessi e delle proposte di
riforma delle Acli e del civile più in generale, riguardava per lui soprattutto
il tentativo di aprire una nuova stagione del cattolicesimo democratico di cui
ho parlato. Giovanni lo riassunse con un altro slogan fortunato Dopo Moro Sturzo.
In un libretto, dal titolo Storia ed attualità delle Acli, dell’aprile di
quest’anno, scrive “Restava il tema,
realissimo ma anche teorico, delle compatibilità. Perché ho sempre pensato che una
organizzazione si sistemi a partire dall’anima. O, come si usa dir adesso, in
tempi di secolarizzazione anglosassone, a partire dalla mission. Mi pareva
dunque importante immaginare uno scenario che avesse per fondamento una base
teorica non improvvisata. Visto che le compatibilità erano un problema spinoso.
Si trattava di tematizzarle in maniera non superficiale. Nasce così la scelta
del popolarismo sturziano. C’è della sapienza nel suo mettere a tema e in
tensione non esplosiva anima e compatibilità, Il problema di sempre delle Acli.
Purchè l’anima tenda sempre a trascendere le compatibilità imposte da assetti
che si pretendono immutabili. Anche questo sta nell’insegnamento di Giovanni.
Eravamo
allora nell’epoca del CAF. Quindi nell’anticamera di una crisi torica di un
sistema politico. 30 anni dopo non ne siamo ancora usciti. E rischiamo una
crisi storica della democrazia, questo lo aveva chiaro Giovanni. Così Giovanni
descriverà 20 anni dopo quel periodo: La stagione fu una delle più feconde. Fu
quella della riscoperta del pensiero sturziano, indissolubilmente legato al nome
di Pino Trotta, fu quello dell’impegno diretto delle Acli per la riforma del
sistema politico. Fu quello in cui lanciammo per la prima volta il tema del Partito
democratico, partito municipale, come capacità di dare forma politica alle istanze
del sociale le quali eccedono costantemente la dimensione istituzionale e nello
stesso tempo chiedono di essere rappresentante, senza mai dare deleghe
definitive, a nessuno. Non è forse delineato qui un compito per le Acli, un lascito,
da ri-declinare nella durissima situazione in cui si trova la politica italiana
oggi? Non è questo di Giovanni un lascito che ci chiede di non smettere di
pensare al destino del cattolicesimo democratico, lasciandoci alle spalle
dispute e nominalismi ormai definitivamente superate? Porsi la domanda: che
contributo al bene comune possono dare i cattolici che hanno a cuore la
democrazia? Ha molto senso ancora oggi ed è parte integrante della nostra
missione. Alle Acli è chiesta quella che Dossetti, torna ancora lui, chiamava
creatività spirituale nella politica. Non per farsi partito. Ma per raccogliere
e rielaborare, anche politicamente, insieme a tutti quelli che ci stanno, un
giacimento di valori, testimonianze, culture politiche che tanti cristiani
hanno sedimentato lungo un storia che non è mai stata lineare, gloriosa, trionfante.
Ma sempre animata da una passione sincera per il bene degli esseri umani e per il
bene comune. Grazie di tutto, Giovanni e resta con noi nel cammino.
Renzo Salvi:
Fiera
del libro di Milano. Antonio Pizzinato, Giovanni, io. Presentazione di Resistenza
senza fucile. Perché è importante? Perché c’eravamo noi, certo. Mi sono anche
tolto il gusto di dire a Pizzinato “alla mia estrema destra c’è…”, mi ha fatto
un gestaccio… perché in modo esplicito in questa situazione Giovanni pone il
problema di un punto di vista da assumere all’interno di un tempo in cui mancano soggetti forti,
soggetti collettivi, qualcuno che si possa far carico della presa di posizione,
per portare una situazione politica verso un obiettivo.
La
resistenza senza fucile vale anche per il lieto annuncio del bocco. La Madonna
che dimenticava a casa il rosario. E’ l’unica madonna che non propone sfaceli. Non
invita a penitenze. E’ una Madonna che compare a questa veggente che poi ha
sposato un aclista. Che dice: sono venuta portare un po’ di sorriso e di
allegria. Vale per questi due libri perché ne il lieto annuncio del Bocco c’è
anche la rivisitazione della presenza dei cristiani nel sociale. Il passaggio
progressivo dallo sfascio del mondo cattolico tradizionale al tema ispirazione
cristiana al tema della vita cristiana , al tema della fede che innerva lo
stare in pubblico e fare politica.
Vale,
questo modo di vedere le cose, anche quando le cose sono complicate e tristi,
vale anche per il prossimo romanzo che uscirà a luglio, che pubblicheremo
postumo, serviranno ancora circa 3 mesi che ha come titolo I due gesuiti, che è
una lettura in parallelo, di Carlo Maria martini e Jorge Bergoglio. E’ un punto
di vista, che suppongo di poter dire alla nostra organizzazione, all’interno di
un contesto che si può chiamare tranquillamente situazionismo. L’avevamo sempre
interpretato come descrizione di un’epoca in cui dominava la televisione, non è
vero, questa è la descrizione del momento attuale. Qualcuno parlava di idoli,
facebook sia uno che li ospita come spazio, è un grande vuoto frequentato
anche, e dico anche, da molte idolatrie.
Quale
è il dovere dell’ora? Per noi è facile, continuare. E’ facile dirlo, difficile
farlo. Continuare nell’elaborazione di un pensiero. Se posso dirlo trovo le
Acli, ultimamente, negli ultimi anni, un po’ disperse. Su questi fronti. Si
tratta di darsi degli strumenti. Esistono i circoli Dossetti. Credo dovremo
lavorarci un po’ intorno. Ci ritroveremo come gruppo innominato, I ragazzi di
piazza Bettazzi, là in piazza Bettazzi. Dove Giovanni ha sempre scelto di
abitare. Giovanni è uno di quelli che magare avrebbe potuto permettersi un
palazzo piuttosto che una villa. E’ sempre stato a Piazza Bettazzi. Al centro
di Sesto San Giovanni, là dove un tempo c’era il vecchio comune, là dove
c’erano i comizi delle grandi forze popolari, quando si facevano i comizi e le
grandi forze popolari c’erano ancora. E’ sempre stato lì. Perché lì lo chiamava
anche un lascito particolare.
Chiudo
con un episodio. Siamo a casa mia. Giovani è da poco presidente nazionale delle
Acli. Eravamo una domenica a pranzo. C’erano lui e Silvia. Lui si trova a ricordare di come,
nel momento della morte di suo padre (il padre di Giovanni muore giovane, ha
frequentato gli altoforni) ad un certo punto questo signore, apparentemente
anziano, più giovane di me in questo momento, alza il dito e gli dice: Giovanni,
te racumandi le assuciaziun… in dialetto sestese, ti raccomando le
associazioni. Quelle che ci stanno intorno. Tra queste le Acli, l’Azione Cattolica,
quelle che stanno sul territorio, il sindacato. Al che mia moglie dice: beh,
allora, tuo papà in questo momento è contento! Giovanni ci pensa un momento.
Poi dice: beh, credo di si.
Lorenzo Gaiani:
Non
abbiamo detto tutto. Del resto era impossibile e non mancheranno altre
occasioni. Vorrei concludere con un ricordo. Che tra l’altro Giovanni mi disse
a voce ma che è stato più volte pubblicato. Lui alla Fine anni 80 ra già
presidente nazionale, si trovò al capezzale di monsignor Franceschi che all’epoca
era vescovo di Padova, era eroso da una malattia che lo stava consumando, era
stato uno dei protagonisti dl concilio e che Giovanni considerava un maestro. E
gli disse: Ora tu te ne vai e non abbiamo più maestri. E monsignor Franceschi
gli rispose: sarà ora che incominciate ad arrangiarvi un po’ da soli. Anche con
Giovanni. Sarà ora che incominciamo ad arrangiarci un po’ da soli. Non è mica
facile. Ma dovremo provarci. Grazie.