20. Legare l'opportunità con un proprio desiderio - Simone Lucidi


Palermo - Brancaccio. 
C'era stato un bando. C'era un progetto approvato che prevedeva delle azioni. 
Una delle azioni era un laboratorio con uso di tecnologie...

Castello di Maredolce.
tutto attorno edificato, abusivo. La sovrintendenza scopre il castello. Va tolta una casa che ne impediva l’accesso. 
Ma era di un clan mafioso che anche se il boss era in carcere la questione non era facile. 

Ragionamento: ma noi possiamo andare a Bravaccio per fare una giornata con 100 persone messe attorno ai tavoli, facciamo domande sul castello? Può mai funzionare? Che senso può avere? 

Ci poniamo la domanda. Ha senso?
Ma non ci fermiamo lì.
Ci poniamo un'altra domanda: Ha senso per noi? 

Per noi cosa significa?
Per noi era un’occasione per sperimentare una cosa che ci interessava. 
Noi negli anni avevamo sperimentato una difficoltà intrinseca degli operatori sociali a confrontarsi con la tecnologia. 
L'atteggiamento prevalente è il rifiuto: mi occupo di relaizoni, non di macchine!
Ma ci siamo anche confrontati con l'opposto: i feticisti! Se c'è un feticcio tecnologico, c'è eccitazione. A prescindere dall'utilità o dalla  congruità e dalla sostenibilità. 
Siccome i feticisti erano in prevalenza dirigenti e gli oppositori in prevalenza operatori, l'uscita era chiara: si prende il feticcio, ci si eccita. Poi se non funziona è sempre colpa degli operatori che non sanno come si usa!
Se nella riformulazione del problema io riesco ad attivare percorsi di pensiero già presenti in me e riesco ad agganciarmi a quelli creo una situazione che ha a che fare con la mia curiosità e con il mio piacere. Lo faccio perchè mi piace. Innanzi tutto. E lo faccio come penso vada fatto. Ci metto una consapevolezza che non è detto che ci sia nel mandato iniziale. 
Assumo un rischio, mi prendo una responsabilità. 
Non è detto che funzioni sempre, ma la pulsione è importante ed ha un ruolo. 

E' a questo punto che posso tornare dal committente.
E iniziare a rinegoziare e accompagnare la riformulazione del mandato. 

Questione degli ibridi. 
Il fatto di sperimentare con altri, in un contesto particolare, dei dispositivi che noi provavamo a definire come ibridi socio-tecnici, senza sapere bene dove porre il confine, dove c’è l’umano e dove il non umano, ci interessava. Questo ci permetteva anche di riflettere su quali saperi deve avere l’operatore sociale, oggi. Anche rispetto ai suoi pregiudizi, ma anche rispetto alla possibilità di ambiti d saperi che permettono spostamenti e aperture a cose nuove. 

Abbiamo cominciato a prefigurarci un percorso che non aveva di predefinito né lo strumento né gli elementi a disposizione. 
Aveva a che fare con una opportunità e con la capacità di legare quell’opportunità con una propria ricerca e un proprio desiderio. 

A quel punto la questione è che dispositivi mettiamo in campo per rendere agibile tutto questo.
L’elemento fondamentale per noi è stato configurare che quello che ci veniva chiesto era un evento.
Un giorno in cui c’è una cosa.
Gli operatori sociali partono prevenuti con gli eventi. Sono quelli dei processi.
Ma il nodo non è: ti danno l’evento, tu sei più bravo e furbo e invece fai il processo. 
Il punto era cercare di aumentare il livello di complessità sostenibile, aggiungendo alla dimensione dell'evento (che doveva restare)  la  dimensione processuale. E creando una connessione di senso tra le due. 

Si trattava di costruire dispositivi organizzativi transtitori temporanei in cui mettevamo insieme persone che lavoravano nell' impresa sociale sul territorio. per arrivare a costruire domande sensate. domande che aprono e non che chiudono. Perché l'evento è in logica binaria si/no. L'evento chiudeva: si votavano le scelte. Noi volevamo la logica di apertura, che teneva dentro i pensieri.

Abbiamo messo assieme in piccoli gruppo responsabili di progetto, operatori, informatici, gente delle associazioni e delle parrocchie.
Gli informatici. Cioè quelli che poi dovevano gestire il software. Lavorare con gli informatici bravi (cioè quelli che noi, per sintesi chiamiamo informatici) è stupendo. Nessuno di loro è laureato in informatica. Vengono tutti da studi classici o da altro.
Hanno varie caratteristiche interessanti. Ma soprattutto una, che è sacrosanta: la capacità di distinguere i tipi logici. Tradotto: la capacità di sviluppare ragionamenti senza saltare costantemente di palo in frasca. Di non passare continuamente da elemento a classe. Gli informatici intelligenti questo lo fanno per natura, non per studio. Tra gli operatori sociali questa è una competenza molto meno diffusa. Avere messo assieme queste figure con gli altri e aver dato fiducia al contesto, al fatto che saremmo stati capaci di interagire, è stato un'esperienza interessante di ibridazione di modelli e produzione. 
L'obiettivo del lavoro dei gruppi era che si potesse arrivare all’evento con le domande costruite da noi. Con domande che aiutassero le persone  a fare spostamenti in  avanti, non indietro. E nemmeno a stare ferme. Fare le domande è difficilissimo. Più di rispondere. Le domande doveva avere la capacità di aiutare il dibattito, la capacità di impedire di ripetere solo ciò che già sai. L'obiettivo era un esito minimo di produzione condivisa di conoscenza.  

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